Ho letto la tua intervista al “Quotidiano Piemontese” in cui racconti da dove nasce questa storia e perchè hai deciso di scriverla, in cui parli del tema dell’affido dei bambini del sud a famiglie del nord nel dopo Guerra italiano e di ciò che Alberto, il protagonista, ha vissuto a Napoli e in Emilia. Riporto il link in cui approfondire tali interessanti aspetti:
https://www.quotidianopiemontese.it/2023/09/05/chi-ne-fa-le-veci-intervista-con-rossella-manna/? fbclid=IwAR12YDrxUgMdqxAX9q20xi7uScZfi1RIVjURqMWCK1zoXOA6ff-sYjSfRSk
Sono rimasta molto coinvolta e colpita dalla storia di Alberto: non conoscevo tali realtà e mettermi, in qualche modo, nei suoi panni, mi ha fatto pensare a quanta silente sofferenza hanno vissuto quelle generazioni per riprendersi in mano una vita, la loro, che la guerra aveva tentato di abbrutire e strappare. Quanta gratitudine dovremmo loro per la forza e l’esempio che ci hanno offerto!
Ciò che desidero chiederti è questo:
1) Il protagonista, è dunque un bambino che, suo malgrado, ha vissuto diverse “separazioni” e “lutti”: la morte del papà, l’allontanamento prima dalla famiglia di origine e poi dai genitori affidatari a cui si era affezionato e che erano divenuti significativi punti di riferimento. Questi eventi possono lasciare ferite e disorientamento per lungo tempo nei bambini e nei giovani, in che cosa e in che modo Alberto ha trovato la forza di continuare a dare senso e significato alla propria vita? Questo è un aspetto che mi sta molto a cuore perché spesso nei gesti e negli occhi dei giovani si legge disorientamento, mancanza di “significato”, di “speranza”.
Alberto è vissuto in un periodo storico in cui la lotta per la sopravvivenza era più importante di ogni altro “sentire”: i lutti, le separazioni e le perdite materiali erano all’ordine del giorno, ma la lotta alla sopravvivenza richiedeva il coraggio di andare avanti. La forza di Alberto, che è stata anche la sua fortuna, è quella di aver incontrato sul suo cammino una persona che ha scelto di prendersi cura di lui, in maniera del tutto gratuita. La famiglia bolognese ha accolto, amato e cresciuto per due anni un bambino sconosciuto, arrivato da lontano, diverso da loro per lingua e per abitudini, senza chiedere nulla in cambio. Mi piace pensare che questo amore sia rimasto dentro di lui come una scintilla vitale, una luce di speranza che ha continuato ad accompagnarlo per tutta la vita.
2) Scrivere questa storia che cosa ti ha lasciato? Ha cambiato qualcosa dentro di te, ha modificato il tuo sguardo? Se sì, in che cosa?
In questa storia c’è un pezzo di me, della mia famiglia: soffermarmi su ciò che è avvenuto prima di me mi ha aiutata a comprendere il valore delle mie radici, a rivivere quei percorsi di vita che hanno condotto i miei familiari ad essere ciò che oggi sono.
Quella che ho raccontato è una bellissima storia d’amore, un esempio di paternità che trascende il vero legame familiare; e l’amore, come sappiamo, è capace di modificare lo sguardo su tutto, sempre.
3) C’è una sorta di file rouge tra la storia e il periodo da te raccontato e il momento storico attuale da cui potremmo trarre l’input per una riflessione personale e/o collettiva?
Trovo che questa storia abbia degli spunti di riflessione su temi di grande attualità: innanzitutto, la paternità non biologica. Tutti i bambini, allo stesso modo, hanno bisogno di essere amati, di avere un adulto che si prenda cura di loro. Attilio non era padre di Alberto, ma è stato capace di amarlo profondamente, e persino di rinunciare a lui, senza nemmeno protestare.
E ancora: la capacità di accogliere, un’umanità che forse abbiamo perso. Oggi difficilmente una famiglia aprirebbe le porte di casa ad un bambino sconosciuto, arrivato da lontano, diverso nella lingua e nei modi, bisognoso di ogni cosa. Questo dovrebbe farci riflettere su come oggi ognuno pensi troppo spesso al proprio benessere, senza considerare il benessere della collettività.
4) Quale ruolo pensi che possano avere i libri, e nello specifico un romanzo come il tuo, nel lungo e necessario cammino di “riumanizzazione” a cui tutti, con le nostre specificità e come comunità, siamo chiamati?
La lettura, in generale, è una vera e propria palestra di empatia. Il lettore, fin da bambino, impara a mettersi nei panni degli altri, scoprendo tutte le emozioni possibili e imparando quindi a riconoscerle, per poi gestirle in maniera sana. I libri ci mostrano il diverso, il possibile, ci fanno viaggiare nel tempo e nello spazio, avvicinandoci a luoghi lontani o a persone e situazioni del passato. I libri sono humus, nutrimento per il nostro terreno umano.
5) Che cosa ti piacerebbe che il lettore portasse con sé dopo essersi “immerso” nel tuo racconto?
Mi piacerebbe che il lettore cogliesse l’importanza di quel piccolo seme di amore, piantato tanti anni fa nel cuore di Alberto bambino, e che è germogliato e cresciuto rigoglioso dentro il cuore di Alberto anziano, un uomo allegro, vitale, gioioso e sereno, nonostante una vita difficile.
Mi piace pensare che questo libro, con delicatezza e verità, si inserisca nel cammino che in qualche modo accomuna tutti: prendere per mano le nuove generazioni e mostrare loro che, nonostante le paure e le difficoltà, la vita e la speranza continuano ad essere un valore su cui riporre la propria incondizionata fiducia: grazie Rossella Manna!
Cristina
Il genere serve a fare il punto su ciò che è stato ed è sempre interessante leggere testimonianze di vicende e dinamiche poco note, che ci affratellano con le popolazioni oggi colpite dall’abominio della guerra e in generale dalle violenze, in varie parti del mondo.
Esse non lasciano soltanto cicatrici, ma anche ferite aperte e gioventù disorientata, sostenuta solo dal bisogno di riscatto, che è spesso male interpretato dalla benestante società occidentale, incapace di accogliere il disagio e prendersi cura dei suoi stessi figli.
Ma c’è un passo ulteriore che dobbiamo fare, nel nostro piccolo, ed è impegnarci anche a solo titolo di testimoni, per le ingiustizie e i genocidi perpetrati nel silenzio cinico o peggio complice.
Altrimenti, possiamo cominciare a rinunciare ai nostri diritti umani, perché non ci spettano.
Apriamo le porte al nuovo che viene… l’ANNO, il BAMBINO… il FUTURO.